Ci sono tanti modi coi quali l’Ordine dei giornalisti italiani potrebbe dimostrare la propria riconoscenza a Silvia Scarrone. Persino il silenzio, che a noialtri riesce meno, e quindi, forse, fra i tanti, fra tutti, è quello che vale di più. Un minuto di silenzio – nessun commento a sproposito, niente colpi a vanvera sulla tastiera, zero di zero: fermi dobbiamo restare, fermi e muti – per dirle grazie per aver tirato la categoria fuori dall’ennesimo pantano di melma in cui è andata a cacciarsi solo qualche giorno fa.
Quando, in meno di mezz’ora, l’eco della notizia della consegna di una busta con dei proiettili recapitata alla giornalista di Repubblica Federica Angeli – già sotto scorta per le minacce dei clan ricevute dopo alcuni servizi sulla mafia capitolina – era scomparsa: dissolta fino a non distinguersi più nella caciara suscitata dall’esclusione del giornalista de La Stampa Iacoboni a una conferenza dei Cinque Stelle. La carineria riservata a Iacoboni è stata – giustamente – ripresa da molti colleghi giornalisti, anche per dire dell’aria che tira intorno a chi rappresenta più di un terzo dell’elettorato del Paese. Ma siccome troppe cose fatte bene, tutte insieme, nella giornata di un giornalista, negli ultimi tempi, proprio non ci stanno, qualcuno dal fondo ha alzato il ditino e fatto notare che, forse, più che limitarsi a riportare il fatto, i giornalisti presenti avrebbero dovuto alzarsi, ringraziare per l’invito, e andarsene. Perché è così che si fa. Perché anche per uno solo in meno, lasciato a piedi, la giostra si ferma. Dovrebbe fermarsi. Ma sabato non s’è fermata. Anzi, ha preso a girare più forte; spinta di qua e di là da chi ha trovato di pessimo gusto il gesto e ancora più oscena la difesa di alcuni colleghi rimasti in sala.
Meno male che ci ha pensato Enrico Varriale –
volto abusato di Raisport, il giornalista
che ha dedicato l’intera vita, comprese le pause pranzo, alla lotta contro un nemico giurato
dei tempi moderni: il buonsenso –
a farci distrarre da quanto stava accadendo a Ivrea.
Lo ha fatto evitando il più dignitoso dei silenzi alla notizia della scomparsa di Ignazio Scardina: l’ex direttore di Raisport, passato dalle cronache sportive a quelle giudiziarie per essere rimasto ingiustamente impigliato nelle maglie del processo Calciopoli (non ci fu bisogno del secondo grado per assolverlo), anche a seguito di alcune dichiarazioni rese ai magistrati, tra gli altri, da Varriale. Alla lettura di quel tweet di cordoglio, perché se non altro s’è limitato a questo Varriale, il collega di Raisport Alessandro Antinelli non c’ha visto più. Alla fine insieme agli stracci sono volati pure due “taci” e un “ipocrita”. Ma era ancora niente, rispetto all’immagine gloriosa che il prodigioso firmamento che è diventato il giornalismo italiano stava per offrire al paese: quella di una categoria curva e famelica sull’immagine di una collega (Elisa Isoardi) intenta, di venerdì sera, a stirare quattro camicie.
E’ in questo scenario agghiacciante che Silvia Scarrone c’ha regalato la lezione più discreta e potente sulla professione del giornalista. Lei, che giornalista non è. Ma è come se lo fosse. Perché quando condividi tutto con un giornalista, finisci per parlare come un giornalista, per pensare come un giornalista, per vivere, come un giornalista. Silvia Scarrone è la moglie di Mauro Pianta, collega de La Stampa morto il 4 aprile, a 47 anni.
L’Ordine dei giornalisti le dovrebbe almeno un grazie. E con lei, a suo marito (inizio io, con un minuto di silenzio). Perché sono parole come queste, testimonianze come queste, le sole in grado di disinnescare ogni voce di troppo che gli sta intorno. E di riabilitare di colpo tutta una intera categoria.
Persino quella dei giornalisti.