Che poi a viverla, questa faccenda dell’esistenza, a viverla ognuno trova il modo che gli è più caro, o meno complesso, o solo più sopportabile. Ma alla fine ognuno lo trova. A dirla invece, a dirla proprio, a raccontarla, ecco quello no. Sono pochi quelli che ce l’hanno fatta. Quelli che sono riusciti a dire – bene – che cos’è la vita. Tutta, dico, la vita. Tutta. Non un po’, non l’adolescenza, non l’età adulta, o certe stagioni dell’anima; che ne so, la paternità, l’essere zia, l’amicizia, no. Quelli che ce l’hanno fatta a dire tutta una vita, in un colpo solo, e bene, sono pochi. Di solito, sono i più grandi. I soli di cui ci si ricordi.
Perché spiegare un’esistenza, una sana, completa, con tutto quello ci sta dentro, guarda che è dura. Guarda che ci vuole un talento prodigioso, ma sul serio. Non quei talentucoli che ci riconosciamo più o meno tutti o che accordiamo a ritmi quotidiani a chiunque sui social (perché, si sa, la verità negli altri mette sempre agitazione). No, parlo di uno vero. Uno maiuscolo. Uno che anche a chi non ne sa niente del talento quello appare subito talento. Non quelle robette che uno sì, e poi due no, un altro boh, quell’altro mah, no. Di quelli che tutti. E Subito. Il talento. Quello.
A saperla raccontare, insomma, a riuscire a dire davvero cos’è tutta un’esistenza piena, per quel che ho capito io, devi essere predestinato. Che ne so, a pensarci così, adesso, mi vengono in mente i soliti due, tre, che sono quelli per tutti. Un russo, un paio di francesi, pochi americani, un colombiano, a pensarci bene pure un giapponese, e gli italiani, sì, certo, anche loro. Ma noi siamo più bravi, per come l’ho sempre vista io, non tanto a raccontare tutta una vita, ma a farcela stare, una vita, nelle cose piccole. Nelle minuzie. Che ne so, tu prendi una cosa piccola, una cosa da niente, la scomponi fino alla massima unità scindibile, togli ancora qualche fronzolo in eccesso, e lì, ecco, lì, proprio lì, gli italiani ti mostrano la vita. In questo ce la siamo sempre cavata alla grande. Prendi la musica. Perché guarda che è questo che fa la musica. Cosa credi che faccia, altrimenti. La musica scinde, seziona, separa l’utile dal superfluo, il bello dal turpe, l’umano dal divino. E in quest’opera di scomposizione minuziosa, la musica, semplicemente, mostra. Ecco, lì siamo stati i più grandi, e per un sacco di tempo. Ma raccontarla tutta, una vita, e farla stare in qualcosa che stia in una mano, meglio ancora, in qualche pagina, di più, in una manciata di minuti, siamo d’accordo che quella un’altra roba.
La musica scinde, seziona,
separa l’utile dal superfluo, il bello dal turpe,
l’umano dal divino.
E in quest’opera di scomposizione minuziosa,
la musica, semplicemente, mostra.
Io, per dire, davanti a chi ce l’ha fatta, a chi è riuscito, davanti a un genio così insomma ho sempre avuto una specie di stasi. E non sodirlo meglio di così, mi spiace. Nel senso che non c’è una volta in cui, pensando a come diavolo abbiano fatto, io non mi sia fermato. Di colpo. Non c’è una volta in cui non succeda che le cose del mondo intorno a me, a poco a poco, pure loro non facciano lo stesso. Fermi, le cose ed io, come sotto incantesimo. E lì lo vedo, o almeno così mi pare, nitido: il talento.
Con Joschka Laukeninks mi è capitata proprio questa cosa qui. E’ successo quando ho visto per la prima volta BACKSTORY, il suo ultimo lavoro. Una roba da inchiodarti allo schermo. Sei minuti al massimo, ma nemmeno, in cui c’è condensata tutta una vita. Letterale. Ora dovrei stare qui a dire della capacità di questo 28enne regista tedesco di farcela stare, una vita, in meno di sei minuti. Del suo talento vertiginoso, della tecnica sublime che gli accrediti a ogni cambio sequenza. Ma se lo facessi non direi probabilmente abbastanza di quello che mi lascia pietrificato davanti a questo micrometraggio, e prima ancora, del modo in cui Laukeninks se ne è servito per dimostrarci come si legge, una vita, prima di dirla. Tutta.
Si legge, è in pratica la lezione che Laukeninks ci sta impartendo, posando lo sguardo su un solo elemento di quella esistenza, uno solo, ma il cuore di tutta l’intera faccenda: te, riflesso nella vita di un altro. E poi disporgli accanto tutte le cose che siano degne di farlo.
Una vita si legge posando lo sguardo
su un solo elemento di quella esistenza,
il cuore di tutta l’intera faccenda:
te, riflesso nella vita di un altro.
Come succede al minuto 5’30’’ di questa vita che non è la nostra, ma è come se lo fosse. Perché è una vita come tante. Come tutte. Compresa la tua.