Ci sono buone ragioni per ritenere che tra un paio di settimane al più tardi, tutti – chi più, chi meno – avremo già ampiamente dimenticato Favour, la bimba di 9 mesi miracolosamente scampata al naufragio del gommone sul quale viaggiava al largo delle coste del Canale di Sicilia. E a giudicare da come l’informazione sta già affrontando questa vicenda, forse, è perfino meglio così.
Già questa mattina, per dire, a tre giorni cioè dalla traversata drammatica, del fatto che siamo davanti all’ultima tragedia del Mediterraneo, o forse alla prima di una nuova difficile estate che come tutte le estati si promette favorevole a viaggi della speranza, l’unico aspetto della vicenda che pare a molti davvero rilevante, è che ci sia un lieto fine a cui aggrapparsi. Ovvero che Favour, dopo tutto quello che le è capitato, abbia presto una casa e una famiglia ad accoglierla. Ci piace pensare alla gara di solidarietà che questa creatura originaria del Mali sia riuscita a innescare in così breve tempo, alle cure amorevoli che le sono state prestate con uno slancio comprensibilmente maggiore di tanti altri e all’amore trasversale che abbia naturalmente ispirato.
E poco importa se davanti a tanta positività tutto il resto passi in secondo piano. Se passi in secondo piano la tragedia stessa toccatale in sorte. Se ci allontani un po’ di più dalla consapevolezza di quello che, come italiani prima ed europei dopo, ci sta capitando. Pazienza se ci porti a non considerare troppo persino la madre di Favour, una ragazza giovanissima, incinta, bruciata e morta in acqua come altre venti persone, vittime pure loro dell’incendio del carburante che si è generato nell’incidente del gommone sul quale viaggiavano, stipati come su un carro bestiame, in tutto una sessantina di persone.
Vittime, il cui valore da troppo tempo
sembra essersi ridotto
a un semplice elemento algebrico.
Pazienza pure se questa madre in fondo sia già diventata giusto una riga di passaggio dell’articolo nel quale, in buona sostanza, si racconta che Favour sta bene, che le sue condizioni di salute sono quasi perfette malgrado quello che le è capitato, che al massimo è giusto un po’ disidratata e che, per questo, al suo arrivo al centro di assistenza medica di Lampedusa, ha bevuto molto – latte e acqua per lo più -, e, cosa ancora più importante, che da qui a una manciata di giorni sarà adottata, giacché le pratiche per l’affidamento sembrano essere una volta tanto pronte in tempi record. Carte che presto favoriranno per questa piccola il più dignitoso reinserimento alla vita.
Importa poco in fondo anche se, pur di scaldarci un po’ il cuore, qualcuno, raccontandoci la sua storia, sia passato sopra alla regole. Specie quelle che, sulla base della Carta di Treviso, disciplinano come “nei casi di minori malati, svantaggiati o in difficoltà, occorre porre particolare attenzione nella diffusione delle immagini e nella narrazione delle vicende”, allo scopo di “non scivolare nel sensazionalismo e/o nel pietismo, che potrebbero divenire sfruttamento della persona”.
E infine poco importa pure se il bianco degli occhioni profondi e bellissimi della piccola Favour, sebbene già segnati dal destino che l’aspetta, abbiano coperto un po’ del rosso della maglietta zuppa d’acqua di Aylan Kurdi, simbolo pure lui di questa tragedia immensa, ma di significato opposto.
In fondo, quello che volevamo, era solo un lieto fine. E in un modo o nell’altro, l’abbiamo avuto.
Fino al prossimo Aylan. E alla Favour che seguirà.