The lady in the manor: “la seduzione dell’ansia”

C’è la vecchia tenuta di campagna abbandonata, la donna di spalle che puoi immaginare bellissima (e se lo fai non sbagli), una immensa vetrata a separarla dal resto del mondo, e il trillo d’un telefono. Vecchio. Primo colpo in gola. Undici secondi scarsi ed è già tutta lì la bellezza di “The lady in the Manor”, raffinatissimo “fashion thriller” del (giovane) regista francese Fred Ruiz.

Se esiste un modo in cui l’ansia seduce, e quel modo esiste, Ruiz deve conoscerlo a memoria. Lo capisci dal modo in cui al tipo piace giocare a carte scoperte, offrendo a ogni sequenza tutti gli elementi che servono per comporre il puzzle, e quindi – in un certo senso – per rompere da subito l’incantesimo che sta alla base di qualsiasi cosa significhi thriller. Al punto che chi guarda, si convince mentre lo fa di avere in mano la partita, di capire tutto un attimo prima che succeda, e scegliere in questo modo da cosa lasciarsi sorprendere, oppure no. Inutile dire che non è così. E che, anzi, tanto più si è sicuri di quello che sta per accadere, tanto maggiore è il senso di instabilità che precede il passo successivo.

Commissionato dai tipi della rivista tedesca Schon, questo corto ha la capacità di trasportarti da subito in un angolo indefinito dell’inquietudine umana, un anfratto non troppo battuto ai piedi di certe fobie collettive.

Qualcosa che sullo schermo prende appunto le sembianze canoniche del casale di campagna bello ma fatiscente, di una luce che è sempre la stessa (non troppo, non troppo poco), di tutto quell’insieme di elementi che si conviene insomma attribuire a certi casali di campagna che, solo a guardarli, ti viene chiederti cosa diavolo ci stai ancora a fare lì fuori. Con elementi così, va a finire per forza poi che uno ci casca, in un misto di seduzione e ansia che fanno da sfondo a queste scene dai contorni surreali. Mettici poi pure che tutto intorno lo sguardo è accudito con premura da una certa idea di bellezza che domina davvero ogni inquadratura. Non la vedi, ma è lì.

 

La grazia piuttosto appannata di Sylvia Gobbel, ex top model australiana e musa di Helmut Newton, dona infine un tocco di decadenza alla scena che contribuisce a rendere tutto più verosimile. Dove non arriva lei, è la mano del regista a risaltare le doti estetiche dell’insieme. Il collante naturale è invece questa incredibile fascinazione per l’imponderabile che ti tiene per mano, senza la minima esitazione, dall’inizio alla fine.

Fino a quando tutto non si scompone, ricomponendosi, sul filo sottile della nostra agonia.