#10 Dis Moi: la sera della festa (echi di domande lontane)

20.15 fermata M Saint Paul. Mettiti qualcosa di decente. Andiamo a una festa. Poi ti spiego”. Non so se fu perché arrivò in uno dei rari momenti di quiete che ricordo da quando sono a Parigi, o per il tono perentorio di quell’ordine mascherato da invito, o ancora per quel “qualcosa di decente” – lui, a me -; ma quel messaggio di Guido frantumò in un istante ogni proposito di serenità che quel tiepido pomeriggio casalingo di metà novembre sembrava volesse portarmi in dote.

A una festa? Noi? La prima cosa a cui pensai, subito dopo aver superato la seccatura, fu chi diavolo avesse abbordato per strappare un invito del genere. Tolte quelle due, tre facce che potevamo cominciare a considerare familiari, infatti, non è che potessimo dire di avere frequentazioni eccellenti lui ed io. Non al punto da strappare un invito a una festa, voglio dire. “Qualcosa di decente”, poi: ma che voleva dire? Decente per chi? Decente per quale compagnia? Smisi di farmi domande al riguardo convinto che tanto non ne avrei cavato un ragno dal buco, e preferii accettare quel destino come se davvero non avessi avuto altra scelta.

Guardai l’orologio, e con grande sollievo vidi che erano appena le cinque: avevo tutto il tempo per un riposino. Dopotutto non c’era mica da stare lì a farla tanto tragica. E poi una serata in mezzo ad altra gente non ci avrebbe fatto che bene. Dev’essere a questo che pensai, o a qualcosa del genere, prima di cadere in un sonno di cui ancora ricordo il tepore.

Al risveglio, d’istinto guardai il display del telefono e quando lessi “19.30” mi prese come una specie di aritmia cardiaca incontrollabile: da una parte dettata dal ricordo residuo del sogno che avevo appena interrotto (vendevo biglietti delle Ferrovie dello Stato in un chiosco sulla spiaggia, a Gallipoli, quando dal mare si stacca un’onda enorme, verso il bagnasciuga; tutti scappano, tranne me che resto chiuso dentro al chiosco di vetro, con l’onda che si fa sempre più grossa e vicina, grossa e vicina, grossa e v…..) e dell’altra dalla consapevolezza che, ormai, non avrei più fatto in tempo ad essere in orario a Saint Paul.

Così feci la prima cosa ragionevole che mi venne in mente. Inviargli un messaggio. Questo: “Contrattempo. Poi ti spiego”. Così, nella mia testa, avevo già guadagnato qualche minuto. Non era vero, naturalmente, però mi piaceva pensarlo. Come se un messaggio fosse una specie di salvacondotto rispetto a ogni genere di imprevisto. Come se dichiararsi in difetto costituisse già di per sé un’attenuante generica, in grado di alleggerire la pena al cospetto della “condanna” morale che un ritardo, di solito, genera negli altri. Ogni tanto funziona.

Nei minuti che seguirono andai in bagno, feci una doccia al volo, ingoiai una fetta biscottata rinsecchita rimasta sulla mensola della cucina forse dalla colazione del mattino, bevvi direttamente dal brick un sorso di succo d’ananas per mandare giù gli aghi di grano della biscottata e passai velocemente l’asciugacapelli sui calzini neri e umidi che avevo appena ritirato dallo stendino.

Alle 20.17, a +2 sul ruolino di marcia, ero ancora sotto casa. A +7 passai i tornelli della metro. A +11 il convoglio partì. A +15 sentii vibrare il telefono in tasca: un messaggio di Guido. “Non possiamo aspettarti. Cominciamo ad andare. Poi ti spiego”.

Ora, a parte il fatto che cominciavano ad essere davvero troppe le cose da spiegare “poi”, da dove saltava fuori quella prima persona plurale? Chi erano adesso questi altri? Si trattava forse degli organizzatori della festa? Erano gli invitati ai quali Guido ed io ci saremmo accodati? O erano imbucati come noi? E se invece fossero state ragazze? E se fossero state brutte? E se fossero state una bella e una brutta, chi si sarebbe fatto carico della brutta? E perché, nel caso in cui fosse toccato a me, proprio io? Andai avanti così per un tempo che non so dire. Anzi sì: a +27 ero fuori dalla fermata Saint Paul. Era tardi. Ma soprattutto, arrivato a quel punto, non sapevo proprio dove diavolo sarei dovuto andare.

Così mandai un altro messaggio a Guido. “Sono qui. Che devo fare adesso?”. Passarono dai sei ai sette minuti (una volta a Saint Paul, era evidente, potevo riprendere a contare il tempo così), poi il telefono che tenevo tra le mani, finalmente, si illuminò di nuovo: “Qui dove?”. Ma è idiota, pensai. “Dove mi hai detto di venire. Alla fermata Saint Paul”, scrissi di getto nel nuovo messaggio, resistendo alla tentazione di dirglielo, che era un idiota. Altri cinque minuti scivolarono lentamente sul quadrante. Cinque minuti nei quali vidi passarmi davanti, a distanza ravvicinata l’uno dall’altro, una ragazza – bellissima – a cui mancava la mano sinistra, una specie di chirurgo col camice sudicio, o forse era un macellaio, non saprei dire, e un frate con una grossa lima nera tra le mani. Dietro di lui, poco distante, un ragazzo dall’aria finalmente serena. Ma di Guido nemmeno l’ombra. Poi un messaggio: “Orange promotions: Profitez de votre…” Falso allarme.

Ancora una vibrazione: stavolta sì, era Guido. “Arriva in Place de la Bastille, e prendi la seconda traversa a destra, la riconosci perché è quella che scorre parallela a un piccolo porticciolo (sì, c’è anche un porto a Parigi: quello). Vai sempre dritto. Fai trecento metri e sulla destra troverai un piccolo alimentari sgangherato. Il portone dopo è quello dove devi fermarti. Suona Paroielle. Gaspare o Gaspierre, non ho capito bene”. Il tempo di finire di leggere questo messaggio e ne arrivò ancora uno. Sempre lui. “Sbrigati. Non puoi capire”.

Ecco, io adesso potrei andare avanti ancora a lungo col racconto di quella serata. Dirvi ad esempio che è stata una delle notti più eccitanti della mia vita. Che si è trattato della festa più assurda – e chiacchierata – data quella sera a Parigi. Descrivere in maniera chirurgica anche il modo in cui l’abbiamo vissuta Guido ed io, lasciarvi respirare un po’ dell’euforica spensieratezza di quei momenti e infine congedarvi con l’immagine di serenità che gli lessi sul volto quando alle cinque del mattino, esausti, decidemmo di tornare a casa. Non prima d’aver fatto colazione in un vecchissimo caffè di Place des Vosges.

Potrei raccontarvi tutto questo, e voi mi credereste. Ma non posso farlo.

Perché io, quella sera, non andai ad alcuna festa.

Arrivato sotto il portone, davanti a quel nome impresso in un font prevedibilmente elegante, mi fermai un attimo prima del possibile.

Me ne stetti così una manciata di secondi, stretto nel mio cappotto blu, immobile, col dito poggiato sul citofono, senza l’intenzione di esercitare la minima pressione. Lasciando che l’ombra di un pensiero sconosciuto facesse la sua prima inaspettata comparsa da qualche parte, dentro di me.

Poi mi voltai, e ripresi lentamente a camminare seguendo la direzione del porto. Passeggiai a lungo fissando lo specchio d’acqua nera alla mia sinistra: un’arena catramosa piena di barche bianche e dall’aspetto borghese, che dall’alto apparivano ai miei occhi come tante piccole perle lasciate riposare la notte su di un grande vassoio d’ottone.

In quell’inusuale spettacolo urbano, plasmato dalla leggera violenza del vento freddo che cominciava lentamente a salire, l’eco di una domanda lontana m’inumidì gli occhi: e se stessi inseguendo solo il prodotto della mia suggestione?