Per quanto non potessimo dire che le cose avessero preso a girare per il verso giusto, non c’era, in me né in Guido, l’impressione che tra noi e la disfatta sarebbe stata soltanto una questione di tempo. Al contrario, sentivamo addosso come una specie di frenesia, del genere adolescenziale: vale a dire quella scarica a basso voltaggio tipica di quando si è inclini a pensare la felicità come a una cosa sempre a portata di mano. Non era così ovviamente, ormai l’avevamo capito da un pezzo, ma la faccenda sembrava aver smesso di assorbirci del tutto.
Senza dircelo, era come se al riguardo avessimo stretto un accordo, lui ed io: niente autocommiserazione, almeno fino al termine di questo percorso. Ricordo perfino il momento in cui accettammo i termini di questa specie di patto tra noi. Era un sabato, e me lo ritrovai seduto sul mio letto, a guardare la finestra. Non posso sapere da quanto tempo fosse lì perché non m’accorsi subito di lui. Lo feci solo quando, come mi capitava di fare di continuo, mi rigirai nelle lenzuola, e lo urtai. Aprii gli occhi ed era lì. Sedeva con la schiena poggiata sulla spalliera, le gambe distese accanto al mio corpo. Era proprio sul bordo del letto, appena imbiancato dalla luce che cominciava lentamente a bagnare la stanza. Sui piedi il grosso cuscino bianco per tenerli al caldo. Non so come fece a capire che fossi sveglio, giacché non lo vidi muoversi di un millimetro, so soltanto che al momento giusto staccò una frase che ancora ricordo bene, malgrado impiegai qualche secondo, quella mattina, a mettere a fuoco. Disse:
Non dovremmo permettere a nessuno di dirci che non ha senso quello che stiamo facendo. Perché niente ha senso, allora.
La vita è il senso – disse.
La vita è il senso. Punto.
Feci in tempo a battere tre o quattro volte le palpebre, immobile com’ero rimasto, prima di sentire di nuovo la sua voce, nel freddo di quella mattina che cominciava a filtrare anche nelle lenzuola: “E adesso va a lavarti, preparo la colazione e ti porto a vedere una cosa per cui mi sarai grato in eterno”.
Rispettai le consegne. Più perché mi pareva di sprecare una bella occasione da come si era premurato di confezionarla che perché ne avessi veramente voglia. Uscii dalla doccia con Guido che aveva appena acceso il fuoco per la moka e messo a scaldare il pane nel piccolo fornetto elettrico che tenevamo poggiato sul frigorifero, e quando mi presentai in cucina vestito e in condizioni di uscire, era già tutto pronto in tavola. Mangiammo senza alcuna fretta, e senza preoccuparci di dover sistemare la tavola, una volta finito, uscimmo.
C’era il sole quel giorno a Parigi. Un sole forte, che riusciva però appena a stemperare il freddo pungente di quell’autunno cominciato presto da quelle parti. Mi sentivo felice, ma non saprei riuscire a spiegarne il senso, adesso, se me ne chiedeste conto. Era qualcosa che aveva a che fare col volersi bene, e con la rassicurante, illusoria sensazione che quel bene sarebbe durato a lungo.
Camminammo tanto. Perché era una bella giornata e perché sapevamo che era ormai imminente quel periodo dell’anno in cui le belle giornate cominciano a somigliare a una specie di piccoli grandi eventi. Lo capisci dal modo in cui ricordi quasi sempre l’ultimo giorno di bel tempo. Una cosa del tipo che potevi lasciarti andare con una certa esattezza a frasi del tipo “era martedì, della scorsa settimana, e ho fatto questo”, oppure “cinque giovedì fa sono stato lì”, o anche “sabato 2 novembre”, senza dover guardare sul calendario. Quel genere di esattezza lì.
Per farla breve, scegliemmo di camminare perché ne valeva veramente la pena quel giorno. E lo facemmo fino a quando, a un certo punto, nel mezzo del niente assoluto, Guido si fermò. “Leggi qua”, disse indicando col dito che usciva appena dal suo lungo cappotto blu scuro una placca bianco-grigiastra poggiata sulla facciata di un vecchio palazzone parigino. Lo stile era quello classico, nel senso di “classici palazzi parigini”, e sul cartello c’era scritto “Salle de terre” (stanza della terra). Mi girai verso Guido. Rideva. Rilessi il cartello. C’era proprio scritto così: Salle de terre. Guardai ancora Guido. Il sorriso era ancora lì, solo nascosto dietro lo sguardo rassicurante che a quel punto mi rivolse: “Andiamo”, disse. Arrivati a quel punto, insomma, potevo mica dirgli di no.
La tromba delle scale era quella di un palazzo normale, come pure normali erano i portoni che costeggiavamo, salendo a piedi, i primi piani dello stabile. Fino a quando, suonando un campanello anonimo, alla sinistra di una porta come tante, al terzo piano di quell’immobile senza pretese, un uomo sulla cinquantina, magro, e vestito di una lunga tunica nera, venne ad aprirci. Prima che potessimo dire qualcosa, ma davvero qualsiasi cosa, anche solo “salùt” o, che ne so, “bonjour” o “ça va?”, si portò velocemente l’indice davanti la bocca, fina e bianchissima, che arricciò con una cura che devo tutto sommato riconoscergli, e fece una cosa che non sentivo fare da anni: “Sssshhhhhhh!!!!”. D’istinto guardai Guido. Rideva. Pensai lì per lì a uno scherzo dei suoi. Poi tornai a guardare quell’uomo, che intanto stava dicendo una cosa, ma piano, una cosa che doveva voler dire “venite”, ma che sembrò alle mie orecchie quello che dice uno che s’è appena fatto un taglietto su un dito.
Sulla destra c’era una stanza bianca con tante sedie nere, lucide, rivolte contro il muro. Al centro di questo spazio, niente. L’uomo ci invitò a lasciare i nostri effetti personali lì, e visto che non capivamo una parola (parlava davvero pianissimo), dopo un istante prese una sedia e ce la mise davanti, come a dire “forza, non è difficile, dovete solo lasciar cadere dalle mani quei cappotti orribili e il più è fatto”. Così seguimmo quella specie di suggerimento. Ogni tanto mi giravo verso Guido che intanto sembrava divertirsi come un matto. Io.. ecco, io un tantino meno. Uscimmo dalla stanza e camminammo qualche metro nel corridoio molto stretto di questo appartamento. In fondo al corridoio, davanti a noi, un altro uomo vestito di nero se ne stava seduto dietro un tavolo laccato di bianco su cui erano poggiati decine di opuscoli tutti uguali e un cartello che invitava a non scattare foto. Alla sinistra di quell’uomo, una porta. La aprì, e quello che vidi penso che lo ricorderò per parecchio tempo.
Terra.
In quella stanza c’era solo terra.
E una luce, gentile.
Diffusa dall’unica lampadina
che pendeva dal soffitto.
Un filo d’oro su parete bianca.
Fine.
Quello che mi colpì fu prima il silenzio, poi l’umidità che cominciai lentamente a percepire e infine la sensazione di familiare pacatezza che prese a diffondersi negli occhi, sopra la pelle, dentro i pensieri. Rimasi in quel tepore per un tempo che non so dire. Assaporando con tutto quello che potevo quegli istanti che non la smettevano di scaldarmi l’anima, lenendo tutti insieme certi tagli.
Prima di uscire feci in tempo a guardare verso una delle finestre dell’appartamento. Fuori cominciava a imbrunire. Si vedeva molto bene Parigi, da lì. La Parigi più bella che mi fosse capitato di vedere.
Sulla strada del ritorno mi attardai a pensare che in quella specie di incontro ravvicinato con l’origine di tutto, c’era in realtà il senso di qualcosa che sentivo di essermi chiesto tempo prima, ma senza capire che fosse veramente una domanda. E che in quel pomeriggio assurdo, in quella stanza viva, sono persino riuscito a trovare la risposta.