#6 Dis Moi: sul fondo di una qualche passeggera felicità

Il tavolo in fondo, quello sotto il bancone, tra la colonna e il termosifone in ghisa. Lo scelse Guido, indicandolo senza esitazioni al primo cameriere che ci venne incontro sorridendo e pennellando con dolcezza le mani su una veste da lavoro non proprio immacolata. Era un tavolo da quattro. Il cameriere, il più giovane dei tre in sala, disse d’accordo e prese da un banco accanto due menu plastificati tra i tanti accatastati lì sopra, poi ce li lasciò scivolare davanti. Non eravamo ancora seduti, e davanti a noi aveva già posato senza particolare cura due bicchieri, di quelli piccoli, per l’acqua, tovaglioli e posate per entrambi, una bottiglia in vetro di naturale subito appannata e una candela. Spenta. Non c’erano tovaglie.

Tra me e Guido solo qualche occhiata e poche espressioni appena vagamente pronunciate, ma che dovevano essere la memoria di una qualche felicità che sembrava voler provare a riaffiorare in superficie. Quel giorno e quello precedente li passammo a cercare di rendere vivibile l’appartamento di Montmartre. Pulimmo quel tugurio dallo sporco e dalle incrostazioni ataviche delle vite precedenti che lo avevano abitato. Non facemmo un lavoro perfetto, questo è ovvio, non ne saremmo stati capaci; ma la cura e la dedizione con le quali scegliemmo di farlo ci lasciò addosso una soddisfazione tale che credemmo davvero che meglio di così proprio non avremmo potuto. E in un loro modo molto particolare, quelle faccende tornarono in un certo senso anche ad unirci. Erano giorni che non parlavamo Guido ed io. E c’era un mucchio di cose ancora in sospeso. Cose, che stavano dietro le domande che non riuscivo a smettere di pormi. Perché lasciare la sistemazione che avevamo trovato al nostro arrivo per quell’appartamento disgraziato? Perché quella fretta? Perché quel cambiamento in lui? Perché? Ve l’ho detto, erano un mucchio le cose ancora in sospeso. E fu come se quella pulizia contribuì tra l’altro anche ad alleggerire, accorciandola, la distanza tra quelle cose e noi.

Capite allora perché la cena mi sembrò subito un premio per quel lavoro sfinente e insieme l’occasione per rimetterci in sesto, lui ed io, come squadra. La proposta infatti fu mia, ma lui accettò senza discutere. Rispose “sì”, evitando intervalli, come se rispondesse a una domanda che in realtà conosceva da tempo. Quanto a me, mi aspettavo qualcosa da quella sera, questo era chiaro. Come era chiaro però che tutto dipendeva da lui. Io avrei soltanto potuto aspettare. E in modo impotente, molto simile a quel genere di attesa tipica delle prime domeniche d’estate, di quando sei al mare, sdraiato, e vedi sparire il sole dietro una nuvola enorme. Non sai mai esattamente quanto durerà, speri soltanto di non avere freddo nel frattempo.

Arrivammo che l’ora di cena era passata da un pezzo. Saranno state le dieci e mezza, credo, e nel locale non c’era già più molta della gente che doveva averlo abitato fino a un attimo prima. Quel tiepido che avvertivamo e che non impiegammo molto per apprezzare, doveva appartenere a loro. Per come la vedo io, ne guadagnò il clima, che mi parse da subito molto familiare, come scarico di tensione, privato di aspettative. In una parola: sereno.

Quel genere di serenità che inclina a discorsi profondi, perché pulisce l’aria che le sta intorno, e lascia spazio al resto.

“Un Bordeaux per favore” chiese Guido sfiorando appena la mano del cameriere più giovane che senza sosta aveva preso a fare avanti e indietro tra la sala e la cucina, mentre i due colleghi si attardavano in chiacchiere ai pochi tavoli rimasti ancora da servire. Il ragazzo portò il vino, e il tappo gli diede qualche problema. Ci guardò il tempo di un secondo, sufficiente per capire se i pezzetti di sughero che inevitabilmente finirono dentro ci avessero indisposto. No, fu la risposta che dovette trarne dal momento che non si scompose, e riempì i bicchieri. Quando versò il vino nei piccoli calici che aveva portato tenendoli nella stessa mano insieme alla bottiglia, fummo pronti per ordinare. Io presi un’entrecôte, con patate e insalata per contorno. Guido, che amava azzardare anche in cucina, scelse un piatto dal nome impronunciabile. Quando gli chiesi se sapeva cosa stava per mangiare alzò lo sguardo verso di me, lasciò scivolare come la forma di un sorriso sulle labbra e staccò una di quelle frasi che mi fece pensare che le cose stavano lentamente tornando al loro posto. Sembrava non aspettasse altro. “Speriamo almeno che l’entrecôte sia abbastanza grande”.

Nella manciata di minuti tra l’ordinazione e la portata, fui sorpreso dal numero di volte in cui Guido controllò il cellulare. Aspettava qualcosa, evidentemente. Capii così dunque che non ero più il solo, quella sera, a farlo.

La mia carne era perfetta, ma non ci fu bisogno di cederne neanche una molecola a Guido, dal momento che il suo piatto era perfino più appetibile; come del resto l’espressione che mi regalò non mancò di sottolineare. In una terrina di coccio a forma ovale, sopra una specie di tagliere in legno, del prosciutto arrosto cotto insieme ad una crema di funghi e formaggio, faceva da cappello ad una specie di timballo composto da patate lesse tagliate a rondelle e legate strato dopo strato da una leggera crema al formaggio fresco. Tra le patate e il prosciutto arrosto, una fettina di vitella. Non proprio un pinzimonio, insomma, ma una roba da rimanerci secchi, tanto era buona. E lo dico con una certa esattezza, perché è evidente che alla fine fu Guido a dover spartire con me un po’ di quella roba.

Un attimo prima di ordinare la terza bottiglia di Bordeaux, ci accorgemmo che nel locale eravamo rimasti soli. Noi, i due camerieri anziani seduti a un tavolo a ridere bevendo bianchino, e il ragazzo che ci aveva servito per tutta la sera e che vedemmo per la prima volta in quel momento seduto in un angolo della sala: la testa poggiata su un pugno chiuso, e negli occhi fissi davanti a sé come il desiderio di un letto pulito e forse di un uomo che l’avrebbe finalmente amato.