#5 Dis Moi: tra banchi di nebbia e fumo PASSIVO

Ad aspettarci fuori la porta di questo appartamento, con la schiena impressa contro lo sportello di una vecchia auto bianca parcheggiata proprio davanti l’ingresso, c’era il nostro nuovo proprietario di casa. Vi risparmio il racconto del viaggio, a piedi, in metro (con scambio) e poi ancora a piedi, che fu necessario per arrivare fin dentro il cuore di Parigi, a Des Abbessess, dove Guido era riuscito a trovare questa sistemazione di fortuna. Ma una cosa di quell’oretta scarsa di sacrificio ho scelto comunque di annotarla. E ogni tanto me la vado a riprendere, nel catalogo imperfetto della mia memoria. Me la vado a riprendere per cercare di capire qualcosa in più di quello che sta succedendo – la fuga, la fretta, il trasloco improvviso – dal momento che con Guido non sono riuscito ancora a ristabilire un contatto.

I suoi occhi, in quelle ore, erano diversi. L’adrenalina, l’entusiasmo, la scoperta continua che avevano alimentato quello sguardo bulimico per settimane, non erano spariti, c’erano ancora. Solo sembravano indistinguibili dalla superficie vitrea che lo foderava. Un po’ quello che succede in certe belle città vicino ai laghi, che può capitarti di osservarne la meraviglia per ore, seduto su una panchina; poi a un certo punto ti distrai, e quando torni lì con gli occhi un banco di nebbia s’è preso tutto. Gli steccati bianchi, i salici, i prati perfetti, il lago: tutto. Sai che c’è ancora qualcosa, di bello, lì dentro, ma non sai esattamente quanto dovrai aspettare prima di goderne ancora. Quegli occhi, in quelle ore, erano così.

            Non gli diede un secondo Guido: gli lasciò giusto il tempo di mettere giù il telefono, poi andò incontro a quell’uomo come se gli stesse per rubare qualcosa. Ci presentò – faceva sempre così: lasciandomi addosso una sensazione da perfetto idiota sublimata da un mezzo inchino con la testa a cui accompagnavo un battito di palpebre e una cosa che da fuori doveva sembrare un sorriso. Ve l’ho detto: un idiota – e chiese in quel suo francese ancora chiaramente stentato se poteva farci vedere l’appartamento. Neanche a lui doveva stare troppo simpatico quell’uomo, lo capii dal modo in cui non lo guardava mai in faccia, mentre si parlavano. Si chiama Jeanni, e credo che anche a volermi sforzare, difficilmente sarei riuscito a trovare circostanza più ridicola. Non per il nome in sé – che penso comunque la dica lunga su un sacco di contraddizioni che mi parvero subito molto evidenti in quell’uomo – quanto per la capacità assoluta, quasi romanzesca tanto era precisa, che quel nome aveva di foderare alla perfezione una figura che per costituzione, e modi, sembrava l’incrocio perfetto tra un aristocratico francese in disgrazia e un povero italiano arricchito. Del primo, infatti, Jeanni mi è parso conservasse la sorridente intolleranza verso tutto ciò che arriva dalle Alpi settentrionali – un tratto inconfondibile di tracotante ostentazione di superiorità senza ragione –; e del secondo, oltre ad una forma di sottomissione al denaro di cui fino ad allora mi era capitato soltanto di sentirne parlare, anche tutto un corollario di sfumature piccole e grandi che completano il puzzle del cafone per eccellenza.

            Aveva ancora in bocca tracce del tiro di sigaretta che Guido gli fece andare di traverso piombandogli davanti in quel modo quando ci aprì la porta di questo appartamento al piano terra. L’odore che uscì dalla porta nell’instante in cui Jeanni la spalancò fu tremendo e imprevedibile, al punto che d’istinto feci un passo indietro. Guido e Jeanni entrarono immediatamente, come se la cosa non li riguardasse; continuando, senza guardarsi mai in faccia, a parlarsi in una lingua che se non era francese comunque doveva somigliargli molto per come riuscivano a capirsi al primo colpo.

“C’è solo un problema – disse a un certo punto Jeanni – anzi due: tutte le mattine, intorno all’ora di pranzo, io devo poter entrare per prendere i fax che arrivano a questo indirizzo” spiegò, tendendo verso un vecchio scanner impolverato il braccio abbronzato che usciva dalla t-shirt e su cui faceva bella mostra di sé un bracciale di un valore che immagino spropositato. “E il secondo?” lo incalzò Guido, che ormai aveva deciso di chiudere questa faccenda prima di arrivare a dare fondo alle sue già scarse doti di mediatore. “Il secondo è che non c’è internet”, rispose con altrettanta velocità Jeanni; a questo punto pure lui, evidentemente, intenzionato a togliersi dalle palle questa seccatura. Prima che Guido potesse rispondere qualsiasi cosa, infatti, ci aveva già spiegato, in una manciata scarsa di secondi, che per il resto tutto era in ordine: lo scaldabagno c’era e funzionava alla grande, ci disse. “Se volete farvi una doccia”, aggiunse pure, aprendo lo sportello corroso dal calcare e mostrandoci un incavo piastrellato nel muro, che nella sua testa doveva funzionare davvero da doccia. Impossibile giustificare in altro modo le decine di confezioni di shampoo aperte e impolverate, lasciate lì da chissà quanto tempo.

            “Sono duecento euro la settimana”, concluse. E riprese a guardarci con un sorriso che doveva far parte della metà francese che lo abitava. “Va benissimo. Sarà perfetto” disse allora Guido che per la prima volta iniziò a fissarlo negli occhi, segnale inequivocabile che il fondo era raggiunto, e ignorando però che a un metro da lui c’ero io, ormai dentro casa, che lo guardavo aspettando un cenno, uno sguardo d’intesa, qualcosa, che valesse per una scelta comune. Uno sguardo che non è mai arrivato. Tirò fuori dalla tasca interna della giacca una busta da lettera gialla e con gli angoli consumati, e senza controllare la porse a Jeanni. Lui sì, che controllò. E prima ancora di aver finito aveva già buttato la busta in un sacchetto della spesa che doveva servire da secchio per la spazzatura, e che era appeso per i manici al pomello di uno dei due sportelli bianchi, in basso, di quella specie di cucinino.

            Il sorriso convinto di Jeanni, stavolta distintivo della porzione italiana che gli riconoscevo, confermò che i soldi c’erano tutti e decretò conclusa la trattativa. Saranno passati quindici, venti secondi, ed era già fuori dall’appartamento. Dietro di lui, a chiarire gli ultimissimi e a quel punto del tutto inutili dettagli, Guido. Uscii appena in tempo per sentire Jeanni ingranare rumorosamente la marcia, allungare il grande braccio abbronzato dal finestrino, e scandire in un tono che mi provocò dentro lo stesso improvviso fastidio di quando in classe la maestra graffiava la lavagna col gesso secco: “Ciao belli”.

Dieci metri più in là, al primo incrocio senza semaforo che si trovò davanti, rallentò fino a fermarsi, giusto un attimo e quel braccio ancora una volta davanti ai miei occhi, stavolta però penzoloni fuori dal finestrino. Sulla sua estremità, la brace rubino di una sigaretta.

Accesa.