“Come fa a dormire. Come fa. Come può addormentarsi tanto facilmente con tutto questo mondo che gli scorre accanto, adesso che è pure tornato a riprendersi in mano la vita. Come fa. Siamo qua da tre giorni, e tutto quello che si è limitato a dire è stato: “Non credo sia stata una buona idea venire qui”. Non credo sia stata una buona idea!? Ma che cazzo! E poi sentiamo, quale sarebbe stata secondo te una buona idea, avanti. Era una buona idea marcire a trent’anni ripetendo sempre gli stessi percorsi? Era una buona idea continuare a giustificare certe ferite accettandole per il doveroso corso delle cose? Cimentarsi con sempre nuove mirabolanti versioni della stessa deprimente piccineria? Eh? Sono buone idee queste? E’ una buona vita questa? E allora non rompere i coglioni, visto che ti sto salvando dalla fine. Ecco, questo avrei dovuto dirgli. E glielo avrei dovuto dire proprio così, senza sconti, se solo avessi voluto farlo tacere per sempre. Ma sarebbe ingiusto. In parte, so che non lo merita. E quella parte è la ragione per la quale l’ho chiamato, l’altra sera, e gli ho detto di Parigi. E che lo avrei voluto con me. Dandogli pure un peso che non meritava, dicendogli che se non fosse venuto lui, non sarei andato nemmeno io. Ecco. Se non sapessi quanto per assurdo tiene alla mia felicità, e quanto c’ha sempre tenuto, se non lo sapessi quanto mi vuole bene e quanto mi accetta così come sono, malgrado milioni di differenze, se non l’avessi saputo, non glielo avrei mai detto. Che altrimenti non staremmo qui, adesso. A cercare ognuno qualcosa, forse soltanto a cercare di meritarsi ognuno la sua porzione di felicità. Lontano da casa.”
Deve averla scritta stanotte Guido questa lettera. Quando gli ho detto che sarei andato a letto, troncando sul nascere uno dei suoi ennesimi scatti d’ira. Gli avevo chiesto di casa sua. Due volte, perché la prima non mi aveva risposto. L’ho trovata poco fa, cercando la mia maglia da corsa, sotto il vaso poggiato sul mobiletto bianco dove teniamo le lenzuola pulite. Parla di me. Ma non dice niente di nuovo. Niente che non sapessi già. Voglio dire, potrei essere molto incazzato con lui per questa lettera, ma non ci riesco. Non ci riesco, perché è vero. Tutto quello che Guido ha scritto, è vero. E’ vero che non era vita d’un trentenne quella. Vero che in un certo senso mi ha salvato – o almeno ci sta provando – con la storia della telefonata. E vero è anche che forse, in fondo, un po’ la colpa è pure sua.
Ha iniziato a scrivere per me, che gli ho chiesto di farlo per guadagnarsi due lire, dal momento che stava tutto il tempo con quell’armonica in bocca e visto che il giornale concorrente al mio aveva deciso di liberarsi del corrispondente storico per svecchiare un po’ le pagine. Quindi scrivevamo le stesse cose, spesso addirittura insieme, ma senza pestarci mai i piedi. Solo che io ero il mediano, il preciso, dal rigore nel lavoro al modo in cui trattavo le notizie. Comprese le meno importanti. Lui no, lui era il fantasista. Lo è sempre stato. Nello scrivere, e pure dove la scrittura proprio non c’entrava un cazzo. Un istintivo, ecco. E come tutti gli istintivi, quando gli riusciva qualcosa, gli riusciva davvero. Che c’era da rimanere a bocca aperta. Valeva con i pezzi che scriveva, ma funziona così pure col resto.
Tutto insieme: i primi articoli, le prime uscite, le prime vere confessioni. Poi un giorno se n’è andato da casa, a 22 anni, e ha messo il turbo. Dell’esame da professionista ho saputo a cose fatte, dopo mesi. Ha scelto di non dirmi niente. Non una parola. Niente. L’ho saputo qualche tempo fa. E quando gliel’ho chiesto m’ha liquidato con una mezza occhiata. Poi ha aggiunto una cosa, senza guardarmi, che ogni tanto ancora mi ronza nelle orecchie:
E’ un sistema come tanti, lascia perdere. Accetti di scendere a patti col sistema e pensi che ne valga la pena. Ti senti sporco, ma pensi che ne valga la pena. E poi non cambia niente. Hai capito? Ti lasci sporcare, e non cambia niente.
Si sentiva in colpa, forse, nei miei confronti. Per aver cominciato a scrivere dopo e grazie a me, ed essere arrivato molto prima e molto meglio di me. Con metà della voglia, e dell’impegno. Può darsi sia anche per questo suo avermi staccato senza mai essersi voltato, senza mai essere tornato a prendermi, che abbia deciso di chiamarmi, l’altra sera, per parlarmi di Parigi. E che mi avrebbe voluto con lui.
Non lo so. Non lo so, davvero, e poi ormai non conta più. O forse sì, ma non m’interessa. Tanto sta uscendo dalla doccia e io ho pure trovato la maglia che cercavo. Dice che c’è un bel parco da queste parti. La pioggia non sarà un problema. Perché quando corro con le cuffie, può venire giù di tutto. Pure certi ricordi.
Ché tanto non mi bagno.
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