L’ultima volta che ho visto Guido portava un piccolo paio d’occhiali neri, tondi, di plastica, secondi su quella faccia per magnetismo solo al sorriso artificiale che sfoggiava in tutte le varianti a seconda del caso e che ormai non risparmiava più neanche a me. Era prima che iniziasse a scrivere per il giornale. Che tradotto, fa più o meno dieci anni fa. In mezzo, qualche incursione, una cena qua e là, un saluto di tanto in tanto. Poi la chiamata, dal niente, l’altra sera. E ora siamo qui, a Parigi, lui ed io, senza una ragione precisa se non quella che fa credere a Guido di avere tra le mani ancora qualche carta buona da giocarsi, prima che il tipo che gliele ha passate se le ripigli in fretta. E per sempre.
Me l’ha raccontata lui, così come ve l’ho detta, questa storia delle carte: gli piacciono le metafore, che volete farci. La fissa gli è venuta con Il Postino di Neruda. E da allora, certe volte stargli dietro è un’impresa. Me ne ha parlato in treno, mentre venivamo. Ché di tempo per rimetterci in pari con gli anni ne abbiamo avuto. Dodici ore, in tutto. Dice che doveva risparmiare. Per questo non ha preso l’aereo. Ma io lo so perché non ha preso l’aereo. Lo so, e basta. Perché l’aereo, diceva, è roba da vacanza o da lavoro. E’ roba seria. E questa faccenda di Parigi, sua e adesso anche mia, non è né l’una né l’altro. O, almeno, non solo l’una e non solo l’altro. E’ entrambe. E entrambe, insieme, devono fare qualcosa che per Guido è una roba da treno. Lo so. E basta.
Il viaggio ce lo siamo fatti in cuccetta: Milano-Parigi a sentirlo dire, come se stesse scolpendo una statua – partire dal blocco informe per finire lentamente nei dettagli –, cosa esattamente si prova a mettere tutto in una valigia, e andare. Perché io posso tornare quando mi pare, questo è l’accordo, e poi io che c’entro; ma lui da qui non torna senza uno straccio di soddisfazione. Non c’è neanche bisogno che me lo dica, lo so da me. Comunque abbiamo dormito d’inferno. Noi, e i due poveracci che con noi hanno condiviso quella notte: un coreano 33enne, ingegnere meccanico partito in vacanza per mezza Europa lasciando a casa la moglie, dice lui malata, e il tunisino d’onore in fuga dall’Italia per un debito di riconoscenza che non sarebbe stato capace di estinguere neanche con un’altra vita. Ma che in compenso, è costato a lui una notte intera di tormenti e lacrime e a noi, il giorno dopo, due occhiaie grosse così.
Non bastasse, quando eravamo più o meno all’altezza di Domodossola, due o tre cani della Guardia di Finanza, non sono riuscito nemmeno a contarli tanto è stato tutto così veloce, hanno fatto irruzione nella carrozza per controllare che tutto fosse in ordine. Erano più o meno le tre e mezza quando ci siamo trovati quei bestioni addosso, e sentirceli sniffare in faccia senza nemmeno un pizzico di grazia né uno straccio di spiegazione dai militari, avvertirli poi passarci tra le gambe, sotto la testa, sotto al sedile, ecco: lì sarebbe stato da fermarsi un attimo, guardare Guido, la sua caparbietà del cazzo, il tunisino codardo, il coreano fedifrago, mandare tutti quanti a fare in culo, e tornarsene indietro. A casa. A dormire. Invece siamo andati avanti. In più da quel momento, ogni tentativo di riprendere una posizione che facesse pensare a qualcosa di molto simile a un po’ di riposo – il mio, naturalmente – veniva smorzato sul nascere dal fastidio procurato dal ricordo di quella ispezione, dal pianto di un tunisino forse troppo onesto e dai ripetuti slanci di Guido.
Proprio in uno di quelli, poco più tardi, ha tirato fuori una lettera. E ha cominciato a leggere.
Lo faceva a voce impercettibile eppure di una qualche consistenza. Ma non la leggeva a me quella lettera, anche se poteva sembrare. E non la leggeva nemmeno al coreano o al tunisino, figurarsi. La stava leggendo a sé. Ma leggere non è quello che faceva. Tutto quello che stava cercando, in quelle parole, era un appiglio. Un sostegno in quel viaggio folle, in quella notte strana, calda, sporca e di un’estate lontana. Un sostegno dalle parole. Come aveva sempre fatto prima e come, ma lo stavo capendo solo in quel momento, avrebbe continuato a fare ancora. Forse per sempre. E a giudicare dal modo in cui dopo averla tenuta un po’ tra le mani l’ha rimessa a posto – la cura nel rispettare le pieghe del foglio, l’ossequio dei contorni e il totale disinteresse per una copertina che in altri tempi l’avrebbe imbarazzato a morte –, quell’appiglio, doveva averlo trovato.
Non so cosa ci fosse scritto in quella lettera. Magari prima della fine me ne parlerà. O magari lo scoprirò da solo. So solo che c’è stato un attimo, dopo quel momento, un attimo vi dico, in cui per la prima volta da quando conosco Guido credo di avergli riconosciuto come qualcosa di rotto nell’impostazione che sempre riusciva a darsi. Fa per dire qualcosa: scosta appena le labbra, chiama lo stomaco a tirare fuori tutto l’ossigeno che serve a dirla, quella cosa, a dirla, ma non la dice.
Non succede niente. Aria. Guido ha spostato l’aria. E basta.
Non lo so dove lo porterà questa faccenda di Parigi. E dove porterà me. So soltanto che stavolta devo essergli grato per aver preso il sopravvento sulla mia vita e avermi trascinato fin qui.